di Federica Valcauda e Massimiliano Melley

Il 17 Marzo, da mezzogiorno, abbiamo raccolto la chiamata che fece Alexei Navalny poco prima di morire, quel ‘mezzogiorno contro Putin’ da avviare durante le ‘elezioni’ presidenziali russe, con l’obiettivo di mostrare quante persone si oppongono ad un regime che ha indottrinato migliaia di persone, limitandone la libertà.
Abbiamo raccolto la chiamata della Comunità dei Russi Liberi in Italia, e abbiamo praticato una ‘scorta nonviolenta’ monitorando il loro momento del voto: la paura era quella che all’interno del consolato trattenessero le persone che si oppongono al regime di Putin, che in queste elezioni erano riconoscibili tramite simboli chiari. C’è stata una ragazza, della Comunità dei Russi Liberi, che è entrata a votare con una felpa raffigurante le bandiera Ucraina e la scritta ‘Stop war, stop Putin’, ma non solo:
chi era in fila con la bandiera Ucraina, chi indossava spillette contro il regime di Putin, chi intonava cori sulla libertà, in futuro, della Russia. Siamo stati accanto a chi ha avuto il coraggio di voler la propria patria libera, e noi, ci siamo offerti di scortare i dissidenti di Putin, tra gli attacchi verbali dai nazionalisti russi in fila.
Lo svolgimento delle operazioni di voto è stato pulito, anche se alcuni ragazzi ci hanno detto che l’urna delle votazioni era trasparente e non viene piegata la scheda elettorale, facendo sì che i funzionari non facciano fatica a vedere la votazione eseguita. L’extraterritorialità in questo caso è stata fatta valere, ma almeno a Milano non ci sono state voci di militari russi che entrano nelle urne: chissà se anche i nazionalisti filoputiniani capiranno le differenze.
Ma veniamo a qualche risultato: gli exit poll dimostrano che il putinismo, seppure meno marcato che in Russia, è vivo anche presso le comunità che vivono all’estero, soprattutto in Europa occidentale. In patria la frattura tra sostenitori e oppositori di Putin è spesso descritta in termini di scontro tra vecchie e nuove generazioni, di differenza tra grandi città, medie città e campagne, a seconda della possibilità e abilità di accedere a informazioni non veicolate dalla propaganda di Stato. Tra chi vive all’estero si nota un assottigliamento di queste differenze, ma non come ci si aspetterebbe. Secondo gli exit poll del seggio di Milano, il 23% ha votato per Putin, il 24% ha preferito non rispondere (e, in gran parte, avrebbe votato per Putin): un risultato ‘fifty fifty’ che contrasta in apparenza con la possibilità di accedere a un’informazione plurale e di vivere in un contesto occidentale, dove la democrazia è praticata e le libertà civili e politiche sono garantite.
Come si spiega allora il voto per Putin tra i russi che vivono in Italia? Il divario tra vecchie e nuove generazioni è probabilmente ancora rilevante: nonostante il contesto plurale e democratico, i russi meno giovani restano maggiormente ancorati all’idea di Russia che conservano del loro vissuto. Un contesto politico non libero, in cui la gestione del potere è nettamente separata dalla vita delle persone comuni, le quali possono soltanto “fidarsi” della leadership. Abituati a questo, perpetrano tale atteggiamento anche nel contesto autocratico putiniano.
E in effetti, al seggio di Milano, coloro che palesavano la loro opposizione a Putin (con spille, cartelli, t-shirts) erano tutti molto giovani, mentre chi esibiva simboli patriottici (nastrini tricolori e così via) apparteneva a generazioni più vecchie. Non basta, dunque, vivere in un contesto in cui l’informazione è plurale se, dentro di sé, sono molto sedimentati sentimenti quali l’abitudine a rivolgersi al potere con deferenza (come quella donna che, vedendo i nostri cartelli col volto di Putin appoggiati a terra, si è lamentata che mancavamo di rispetto al “presidente”) e il patriottismo vittimistico, secondo cui il mondo “vorrebbe distruggere la Russia”, antico leit-motiv ereditato almeno dai tempi dell’Urss.
Non è un caso che Putin abbia “chiamato a raccolta” il popolo per “un voto patriottico”, facendo leva proprio sul sentimento vittimistico, sapendo bene quanto è, questo, un punto dolente per il russo medio. La paura di essere attaccati è ancestrale per i russi, ed è infatti la base fondante della propaganda secondo cui il regime russo, scatenando l’invasione dell’Ucraina su vasta scala, avrebbe agito in modo preventivo rispetto a un possibile futuro attacco della Nato a Mosca. Una guerra anche psicologica, ma di manipolazione del proprio popolo, quella che in occidente derubrichiamo come paranoia è in realtà la leva con cui Putin ha messo in cassaforte il consenso interno sulla guerra. La compatta (e doverosa) reazione occidentale ha dato ulteriore motivo al regime per far credere ai russi che la Nato e gli Usa (e l’Europa, come pedina della Nato e degli Usa) intendono cancellare la loro patria.
La desuetudine alla dialettica democratica e al pluralismo politico e informativo era evidente, tra i russi che vivono in Italia, perfino nelle reazioni violente alla semplice presenza della scorta non violenta e del dissenso: un cartello appoggiato per terra diventava mancanza di rispetto, ma anche un cartello tenuto in mano doveva essere contestato, strappato di mano, possibilmente calpestato; facili all’insulto e all’aggressione verbale, i russi “non liberi” si sono dimostrati pronti anche a quella fisica, tanto da cercare di togliere dalla mano di un signore non più giovane un cartello su Navalny, di fronte alla polizia, come se fosse normale censurare una manifestazione d’opposizione (e in effetti, in Russia, è normale).
Lontane anche le questioni dei diritti, nonostante il vissuto in occidente: il Pride, per una donna elegante, diventa “un insulto”, compatibile con la cosiddetta “Gayeuropa” con cui i più fervidi putiniani appellano l’occidente europeo.
Di contro, i “russi liberi”, accorsi a centinaia a mezzodì per il ‘Mezzogiorno contro Putin’, hanno avuto il coraggio di mostrarsi come abbiamo descritto poco sopra. Vi ricordate la ragazza in felpa con la bandiera ucraina e la scritta “Stop Putin Stop War”? L’addetto del consolato le ha chiesto di coprirla chiudendo il giubbotto, perché sarebbe stato inteso come messaggio provocatorio.
E poi c’erano gli italiani. Mariti di donne russe, per lo più, e quindi “accompagnatori” al seggio. Come spesso accade, più realisti del re. Uno, in particolare, per nulla preoccupato d’apparire un fascista con il cappello e la t-shirt nere e il modo di fare sguaiato, si vantava d’essere un “vero italiano”, al contrario di noi, e non temeva di sottolineare come avessimo “il cervello pieno di merda”, chiedendoci dove eravamo “nel 2014”, l’anno in cui iniziava l’invasione della Russia con la presa illegale della Crimea e, per mano di un gruppo di neonazisti russi e uomini del Kgb, la guerra in Donbass.
Che l’abbia detto, tra gli altri, a una ragazza della Crimea, che non può più tornare nella sua città da 10 anni, è una amara ironia.
E ancora, un auto dichiaratosi avvocato ha consigliato alla donna che tentava di strappare il cartello davanti alla polizia (e alle telecamere) di non farlo “per non dare argomenti alla stampa”: è stato semplice ricordargli, vista la sua professione, che l’Italia è uno Stato di diritto, e che il primo motivo per cui non si possono strappare i cartelli agli altri è la libertà di manifestare, qui garantita (e in Russia no).