Intervento oratorio dell’architetto Cesare Burdese alla maratona oratoria davanti alla RAI di Torino
Il nostro carcere è un ospedale che non cura, ma che ammala, una stazione irraggiungibile dai treni, un porto che non da riparo, una scuola che non forma, e così via.
Come architetto ritengo l’edificio carcerario inadeguato per quello a cui deve servire, in quanto funzionalmente concepito secondo logiche e criteri superati e anacronistici.
Come cittadino di una nazione che si professa civile, lo reputo un luogo disumano e lesivo della dignità di quanti ci vivono e lavorano, per le condizioni materiali che gli appartengono e alle quali essi vengono sottoposti quotidianamente, non ultimo il sovraffollamento ed il degrado delle strutture.
Come contribuente, tralasciando i dati sulla recidiva che ne sancirebbero il fallimento dell’azione rieducatrice, ritengo uno spreco di denaro pubblico la scadente qualità architettonica delle edificazioni e la scarsa cura nella manutenzione delle stesse.
Il risultato è quello di ambienti igienicamente insufficienti e pertanto nocivi alla salute e in molti casi fortemente degradati, al punto da diventare inutilizzabili.
Le nostre carceri, numerose e diversificate per epoca storica, anche nel caso delle più recenti, non consentono di eseguire la pena come la nostra Costituzione ammonisce: una pena che non deve essere contraria al senso di umanità e che deve avere anche la funzione di rieducare chi commette reati e di agevolare il reinserimento in società.
In carcere quotidianamente quel monito costituzionale è violato, così come è in buona parte inattuata la grande riforma dell’Ordinamento Penitenziario, avviata con la legge penitenziaria del 1975.
La mancanza di spazi adeguati – al chiuso e all’aperto – per le cosiddette attività trattamentali , insieme al cronico stato di sovraffollamento delle strutture, costringe per lo più all’ozio forzato, vanificando ogni finalità rieducativa della pena detentiva.
Immaginate di vivere da persona detenuta in ambienti costantemente illuminati artificialmente e privati della luce naturale, di muovervi all’interno di strutture fortemente compartimentate e frazionate, lungo percorsi interrotti da una serie interminabile di cancelli, dove non sia possibile spaziare con lo sguardo ne tanto meno traguardare orizzonti lontani, con la conseguenza con il tempo di avere la vista rovinata, dove il rumore e il vocio costante mina il vostro udito.
Immaginate di essere costretti a vivere in costante stato di infantilizzazione, perché non vi è data la possibilità di aprire una porta, muovervi ed agire in autonomia, per come gli spazi sono configurati.
Immaginate di essere privati della possibilità di sperimentare tutte le esperienze sensoriali vitali, per la mancanza generalizzata di elementi naturali in un costruito monotono e monocromo, che mortifica ed incapacita, anziché favorire ed abilitare, che appare fatto più per contenere cose che persone.
Immaginate di abitare una cella dove l’umidità delle pareti e dei soffitti si rende bagnato il materasso della branda vostra branda, dove i serramenti sono malandati e non proteggono dalle intemperie e dagli sbalzi termici del clima, dove l’acqua della doccia, quando presente, è troppo calda o troppo fredda.
Immaginate di dover vivere segregati – anche sino a 22 ore al giorno – in uno spazio ridotto, da condividere con un’altra persona, che non vi siete scelta; uno spazio male illuminato e ventilato, miseramente arredato, con un wc che funge anche da cucina e dove l’unica finestra – schermata da inferriata e fitta rete metallica, impedisce l’affaccio e la vista del cielo, l’ingresso di luce diretta oltre che un adeguato ricambio d’aria.
Immaginate di disporre, come unico spazio per stare all’aperto, di un inospitale recinto in cemento, a volte poco più che uno stretto corridoio, meno che lo spazio di un canile.
Immaginate di dover vivere costantemente nella promiscuità, senza potervi concedere momenti di privacy veramente tali, di dovervi incontrare con i vostri affetti più cari, per lo più al chiuso, in locali male illuminati e spogli, nella più totale promiscuità e confusione.
La continuativa detenzione in tali condizioni appare, contraria al senso di umanità, cui l’esecuzione della pena deve improntarsi, risolvendosi in una ulteriore e gratuita afflizione per il ristretto, non giustificata da alcuna esigenza securitaria.
E’ bene precisare che un simile stato di cose investe direttamente ed indirettamente anche gli operatori penitenziari, con il rischio di cadere in uno stato di stress cronico, caratterizzato dalla sensazione di completo esaurimento delle proprie energie fisiche e mentali.
Immaginatevi tutto questo e molto altro ancora e chiedetevi se per la pena del carcere, non si possano trovare altri modi più umani e dignitosi di organizzare i suoi spazi. Quanto succede in Italia rappresenta una condizione che all’estero, in numerosi casi, è stata negli ultimi decenni superata. Ad opera di valenti architetti sono state realizzate carceri più attente ai bisogni fisiologici e psicologici di quanti – a vario titolo – le devono utilizzare, restituendo alla fine, in alcuni casi, vere e proprie opere di architettura. Sono architetture che riconducono l’edificio carcerario fuori da una visione esclusivamente afflittiva della pena, che lo rendono contemporaneo attraverso una progettistica consapevole ed attenta ai quei valori di umanità e riabilitazione che la comunità civile internazionale ha da tempo condivisi.
Nel nostro paese quanti si occupano di architettura o quanti la insegnano nelle aule universitarie, di fatto non sono interessati al tema. Gli architetti si trovano a progettare realtà che non conoscono ne comprendo. Diventa pertanto imperativo far cresce un fronte di pensiero architettonico su questa tematica, per fornire strumenti culturali utili per affrontare consapevolmente la progettistica carceraria. Questo per ridurre il danno della privazione della libertà personale con i mezzi che l’Architettura, anche come azione rivolta al sociale, ci offre. L’obiettivo finale comunque è quello non di migliorare il carcere ma di approdare a qualcosa di meglio del carcere. Ingenuamente, l’auspicio è che si possa al più presto lasciare alle spalle tutta l’insipienza e la mancanza di consapevolezza che da sempre caratterizza l’azione in questo delicato settore della giustizia. L’avvenuta nomina del dott. Marco Doglio quale Commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, potrebbe diventare una opportunità in tal senso. Il Commissario, dovrà “ provvedere alla realizzazione delle opere necessarie per far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari”.
La domanda si pone spontanea: verrà intaccata la progettistica di sempre, recependo quanto negli ultimi anni è stato teorizzato in materia di Architettura penitenziaria a livello nazionale?
Realisticamente, visto il contesto operativo esistente, appare una pia illusione sperarlo. Presto apprenderemo con quali poteri il Commissario scenderà in campo e come si giocherà la partita.