A cura del Prof. Alberto Berretti (Professore dell’Università Tor Vergata di Roma) – Intervento di apertura del seminario di Europa Radicale del 22 giugno “Tecnologie, Diritti, Libertà e Democrazie”

Parlando di socialità on line in una casa radicale, non si può non partire ricordando lo storico esperimento di Roberto Cicciomessere – con cui oggi vorrei parlare di queste cose con molto piacere, ma ahimè non è più possibile – e cioè la vicenda di Agorà Telematica: c’erano allora delle grandi speranze sulla possibilità di utilizzare i nascenti mezzi della comunicazione on line per la politica, entusiasmi che in parte sono espressi e teorizzati nell’articolo “Una Piazza per la Babele Radicale” (http://old.radicali.it/search_view.php?id=51398&lang=IT&cms=12), a firma Caterina Caravaggi e Roberto Cicciomessere, che risale, su scala digitale, ad ere geologiche fa: il 1989! Gli entusiasmi tra i protagonisti di quella vicenda in realtà erano addirittura molto piú vivi e presenti di quanto può trasparire dall’articolo.
Veramente credevamo di essere agli albori di una rivoluzione. E lo eravamo, solo che come con tutte le rivoluzioni le cose non sono poi andate  per il verso giusto.
Non che già allora mancassero i segni: sia pure su una scala limitatissima ad esser generosi (avevamo al massimo migliaia di utenti vs. i miliardi di utenti delle grandi piattaforme oggi) già allora si potevano toccare con mano fenomeni di bullismo digitale che oggi ci sono ben familiari, come se nella comunicazione digitale la separazione fisica tra i partner unita all’a sua immediatezza quasi conversazionale favorisse automaticamente l’aggressività in una specie di esperimento di Milgram virtuale (gli psicologi sperimentali potrebbero fare cose interessanti in questo campo). Noi pensavamo fosse marginale, invece il crescere delle dimensioni dei grafi sociali ha dimostrato quanto tale fenomeno fosse invece essenziale.
In quella fase, un po’ pionieristica e caratterizzata dall’entusiasmo per la novità tecnologica a prescindere da qualsiasi altra considerazione, è nata l’idea che gli strumenti digitali potessero servire per rinnovare la democrazia. C’era Berlusconi, e la “telematica” sembrava essere il vaccino contro la degenerazione della politica portata dal mezzo televisivo, un mezzo che sembrava cambiare in peggio, ovunque, la società. La mente dei sociologi era occupata dal fattoide della “videocrazia” e non si accorgeva del mostro che stava germogliando: fattoide, perché ad es. mia figlia, 18 anni, non sa nemmeno cosa sia un canale televisivo e le fa ridere l’idea che film, serie, spettacoli potessero una volta essere organizzati cronologicamente in un “canale”. Ci fu persino qualcuno che pensò di occupare nel nascente mondo digitale italiano il ruolo che B. occupava nel mondo della televisione commerciale ed utilizzare a fini politici tale posizione – con scarsi risultati. La vicenda in realtà prese una brutta piega quando un ex comico riuscí a fondare un partito basandosi su un blog, e pensavamo di aver toccato il fondo: in realtà non ci eravamo ancora resi conto di quanto il baratro fosse profondo ed il problema globale, mentre la videocrazia è rimasta un problema secondario, un fuoco di paglia, o, come direbbe mia figlia, “roba da vecchi”.
Ma sgombriamo subito il campo da un elefante nella stanza: le recenti normative UE (Digital Services Act, Digital Markets Act; menzione d’onore per le piú datate normative GDPR, NIS, NIS2, solo relativamente significative in questo contesto) sono sacrosante per molte ragioni ma marginalmente utili per il problema della disinformazione. In alcuni casi, inoltre, il diavolo si nasconde nei dettagli: l’interoperabilità delle grandi piattaforme di messaging ad es. è una cosa in cui svariati demoni possono nascondersi con grande facilità, in quanto garantire il fatto che i messaggi siano cifrati end-to-end attraverso i confini tra piattaforme distinte è un problema non banale, e ad es. i comunicati di Meta relativi a Messenger e WhatsApp sono sostanzialmente dei disclaimer per gli utenti del tipo “dovrebbe essere tutto sicuro, ma…”.
Marginalmente utile: il DSA introduce alcuni obblighi per VLOP (Very Large Online Platform) e VLOSE (Very Large Online Search Engine). Si tratta sostanzialmente di svolgere un’analisi del rischio e di prendere delle misure sulla base dei risultati di tale analisi. Inoltre, dovrebbero essere predisposti dei meccanismi in grado di garantire un’adeguata risposta a situazioni di crisi.
Ovviamente è meglio che niente e certamente è un passo avanti. Ma non è, nemmeno lontanamente, la soluzione al problema. Magari fosse cosí facile.
Misure analoghe sono contenute in qualsiasi normativa di sicurezza in qualsiasi settore del mondo digitale e non solo (sopra citavo NIS e NIS2), spesso con i risultati che abbiamo sotto gli occhi. Normative simili non hanno impedito, e non impediscono, di avere qualche server dei backup di aziende di importanza nazionale con password di Admin ‘12345678’ o di avere computer piazzati in pezzi di infrastrutura critica importante accessibili come root senza password (sia pure su un’intranet): tutte cose che nella mia vita nell’infosec ho visto, insieme a molte altre.  L’importanza della normativa nella sicurezza digitale è certamente importante, ma l’approccio basato esclusivamente sul paperwork e sugli adempimenti formali non porta a nulla.
Inoltre, la disinformazione spesso non viaggia su VLOP e VLOSE. Una piattaforma popolare ed importante come Discord non è ad es. nella lista delle Very Large cose. Reddit non è nella lista delle Very Large cose. L’intera galassia del Fediverso (Mastodon etc.) non è e non sarà mai una cosa Very Large in qualsiasi senso, data la sua natura frammentata. Peraltro, se il “Fediverso”, come realtà sociale del mondo digitale, è molto sensibile al sociale ed a tratti sconfina nel wokismo spinto, nulla impedisce al suo software, che è open source, di essere usato per realizzare potenti canali di disinformazione: piattaforme social come Gab, un pilastro dell’Alt Right americana, e come Truth Social, il social network di Trump, sono realizzate con il software di Mastodon. Il ruolo che hanno avuto nel diffondere disinformazione le micropiattaforme del colorito e variegato mondo delle imageboard come 4chan è pure importante. I curiosi possono consultare la lista delle piattaforme Alt Tech secondo Wikipedia (https://en.wikipedia.org/wiki/Alt-tech). C’è un intero universo di disinformazione che viaggia sotto i radar di tutta la normativa passata, presente e molto probabilmente futura. Praticamente abbiamo costruito un ombrello con dei buchi piccoli, sperando che venga giú acqua solo in grosse gocce: non siamo attrezzati – ed è estremamente difficile esserlo – contro una pioggerella continua e finissima.
Un altro mito da cui dobbiamo sgombrare il campo se non vogliamo perdere tempo dietro a pseudo-problemi è l’annosa, continua, persistente vicenda dell’identificazione certa degli utenti dei servizi digitali.

Qui bisogna essere chiari e capire bene alcune cose.
1. L’identificazione certa nei social è tecnicamente impossibile, amenoché non si voglia imporre una struttura di tipo cinese alla rete nazionale e chiuderla al resto del mondo. Ma possiamo imporre a Facebook di usare lo SPID! Ammesso che ciò sia vero, stiamo solo imponendo ai buoni di comportarsi bene: nulla impedisce a uno dei bad guys, ad esempio, di registrarsi su Facebook in un altro paese (ad es. con una VPN) e postare contenuti in italiano con un account di un altro paese. Allora vietiamo o regolamentiamo le VPN! Rimuoviamo la visibilità di chi posta da fuori dall’Italia! …ed ecco la slippery slope che ci porta dritti dritti verso il modello cinese/iraniano della rete, magari dietro bandiere liberali e per le buone intenzioni di combattere la disinformazione. Jar Jar Binks nel Senato Galattico non potrebbe aver avuto idee migliori.
2. L’anonimato in rete è una chimera, è estremamente difficile da ottenere. Chiedete a Dread Pirate Robert, al secolo Ross Ulbricht, in carcere a vita negli USA without parole per una lista di reati lunga un chilometro che ruotava intorno ad un dark market (il famoso sito Silk Road) realizzato mediante la rete TOR, che è pressocché lo stato dell’arte per quanto riguarda l’anonimità in rete. Come chiunque che ha un po’ di nozioni nel campo ben sa, realizzare una vera anonimità in rete è quanto di piú difficile esista non tanto per la mancanza di strumenti tecnologici, ma perché mantenere una posizione anonima implica mantenere un livello di OPSEC (sicurezza operativa) di livello militare, e ben pochi sono in grado di farlo (nemmeno uno spacciatore di droga on line di alto profilo, a quanto pare). Certo, per sapere chi è Farfallina74 su un social ci vuole un reato, ci vuole un mandato, e ci vuole un giudice: ma è giusto che sia cosí, o vogliamo avviarci su quella china scivolosa a cui accennavo al punto precedente? Ci siamo messi lungo una simile china per tutelare gli affari dei club di calcio, con risultati pessimi (Stefano Quintarelli, tra gli altri, ha scritto cose importanti sul sistema Piracy Shield sul suo blog).
3. L’identificazione certa non serve a niente, perché i principali attori della disinformazione sfruttano i medesimi meccanismi della democrazia liberale che loro disprezzano per nascondersi dietro la libertà di pensiero e di parola, o, peggio, dietro la libertà accademica: quindi non sono niente affatto anonimi. Non solo, ma anche il bullo casuale su X/Twitter o Facebook, non solo il disinformatore titolato e  di alto profilo, in genere non è anonimo: non ne ha bisogno perché semplicemente la dimensione delle sue azioni vola sotto i radar della legge (e per fortuna, altrimenti dovremmo avere schiere di giudici occupati in stupidaggini). Ma potremmo pensare di fare come con i siti di streaming delle partite, e bypassare giudici, mandati etc.! …ottima idea, chissà poi chi fa da polizia del pensiero e stabilisce qual’è quello giusto.
Il problema in realtà lo abbiamo toccato qualche riga sopra, e non è nuovo, tutt’altro: i principali attori della disinformazione sfruttano i medesimi meccanismi della democrazia liberale che loro disprezzano per nascondersi dietro la libertà di pensiero e di parola. Non è un problema nuovo, è il problema della democrazia da quando questa parola ha assunto il suo significato moderno. Ciononostante, le cose hanno funzionato relativamente bene (piú o meno: la storia dell’Europa nella prima metà del XX secolo non è stata proprio il massimo da questo punto di vista). Cosa è cambiato? Il problema è che le dimensioni contano, e le dimensioni sono cambiate drasticamente:
1. L’informazione raggiunge un pubblico globale – davvero globale – in cifre mai viste prima. Il fatto che l’informazione abbia un supporto digitale, e che i dati in forma digitale possano viaggiare su una rete globale, è il fattore determinante per il raggiungimento di una tale soglia.
2. L’informazione raggiunge tale pubblico globale in tempi rapidissimi, mai visti prima. Questo esattamente per la medesima ragione di prima.
Sono questi fattori quantitativi estremi che hanno spuntato le difese che le democrazie, in due secoli, avevano preso contro la disinformazione e contro il populismo. Esistono fenomeni non lineari, in cui il passaggio di un dato numerico oltre una soglia porta a fenomeni nuovi: ragionare secondo un modello superfisso porta a risultati totalmente lontani dal vero.
La presenza dello strumento di comunicazione digitale e di canali di disinformazione e di manipolazione dell’opinione pubblica dei paesi democratici (gli altri non hanno bisogno di tali strumenti…) ha delle conseguenze anche in un cambiamento di natura, oramai evidente da qualche decennio, nel terrorismo, che acquista una nuova valenza, quella appunto di strumento per innescare campagne di disinformazione. Le guerre cosiddette ibride di oggi sono sostanzialmente questo: l’apertura di un fronte bellico nell’opinione pubblica come fronte determinante (e non solo secondario, come è sempre accaduto) di un conflitto. Nel contesto delle guerre ibride, la valutazione di una operazione militare si basa in modo preponderante sulle conseguenze che essa ha nell’opinione pubblica.
Ad esempio la tragedia del 7 ottobre, che Hamas è riuscita a far dimenticare con l’invenzione del “genocidio palestinese” e con la complicità di settori intellettuali occidentali tutto fuorché anonimi, ne è una plateale dimostrazione. Il cancro della disinformazione creata da Hamas e dai suoi attivi sostenitori si è infilitrato non solo in già fertili settori intellettuali ed accademici, ma anche nelle aree piú insospettabili del mondo della politica. Da questo punto di vista, Hamas ha avuto un successo straordinario, al di là delle piú rosee previsioni.
Da questo punto di vista, tre punti sono fondamentali:
1. L’atto terroristico diventa performance art, deve essere spettacolarizzato, livestreamed, anche ammettendo l’orrore, senza vergogna: non tanto per terrorizzare il nemico quanto per guadagnare l’ammirazione dei proseliti in una situazione di polarizzazione estrema delle opinioni (v. punto 3. sotto). Dai video delle decapitazioni di Al Qaeda anni fa in Iraq, alle spettacolari esecuzioni dell’ISIS nel teatro di Palmira in Siria durante quella sciagurata guerra dimenticata che ancora continua, ai video delle body cam dei terroristi di Hamas il 7 ottobre, lo spettacolo splatter prende il sopravvento su qualsiasi altra considerazione.
2. L’emotività social viene sfruttata mediante il continuo bombardamento di foto, video, must see, storie esclusive. Inoltre piú tali canali sono underground, piú chi comunica è fuori dai media convenzionali più diventa credibile, paradossalmente, una volta che la narrativa terzopersonista – non ce lo vogliono far sapere! – ha preso il sopravvento.
3. La creazione di comunità on line fortemente polarizzate, in cui determinate notizie scorrono senza incontrare alcun ostacolo perché automaticamente accettate come le nostre (e gli individui sembrano avere una tendenza a preferire di far parte di un gruppo), fa il resto.
Non è facile risolvere questi dilemmi e nessuno deve pensare che due o tre trovate possano risolvere il problema per vie legali e normative. Indubbiamente come pionieri della rete, del web e della socialità on line avevamo frainteso i segnali che erano presenti fin dall’inizio ed abbiamo peccato di superficialità, presi dall’entusiasmo per il nostro nuovo giocattolo. Certamente la battaglia deve essere condotta con una piena conoscenza, anche teorica, dei meccanismi con cui le notizie si diffondono in una rete, con cui le opinioni si formano, le comunità si polarizzano prima e si radicalizzano poi: uno studio complesso che deve coinvolgere psicologi, sociologi, informatici e matematici, ma senza il quale non andremo molto lontano. Sono perfettamente conscio del fatto che lo stato della situazione sia pessimo ma con interventi casuali e non guidati da una conoscenza precisa delle dinamiche sopra menzionate non potremo che far di peggio.