L’articolo di Emilia Rossi e Carmelo Palma:
La riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario, con la separazione delle carriere dei
magistrati, è un corollario necessario del principio costituzionale del giusto processo, stabilito
dall’articolo 111 della Costituzione che vuole che le parti, accusa e difesa, stiano in condizione di
parità avanti al giudice terzo e imparziale.
Giudice terzo significa che dev’essere altro dal pubblico ministero e dal difensore, ugualmente
distante da entrambe le parti: un principio che può essere attuato soltanto con una riforma
ordinamentale, che cambi, cioè, l’organizzazione della magistratura che ancora oggi vede uniti
magistrati inquirenti e magistrati giudicanti in un unico ordine.
E solo con questo cambiamento può realizzarsi seriamente il processo accusatorio che nel 1989 ha
sostituito quello inquisitorio nato dal governo fascista cui pure appartiene la nascita dell’unità
delle carriere dei magistrati, ritenuta, dal ministro della giustizia mussoliniano Grandi, più adatta a
tutelare gli interessi del regime di governo.
La separazione delle carriere dei magistrati non a caso appartiene al cuore della battaglia radicale
per la giustizia giusta nata negli anni ’80 con il caso di Enzo Tortora a cui sono stati intitolati i
referendum sulla giustizia del 1987, promossi dal Partito Radicale.
Nel 2000 fu il Partito radicale a promuovere il primo referendum per la separazione delle carriere
che, pur non raggiungendo il quorum, ottenne il 69% dei consensi.
Oggi il voto referendario non prevede il quorum e, quindi, se si ripeterà il SÌ del 2000, avremo la
possibilità che si compia, per quanto tardivamente, la riforma del sistema della giustizia ispirata al
principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza dell’accusato, alle garanzie di difesa,
alla trasparenza dell’amministrazione della giustizia e alla sua indipendenza da ogni
condizionamento politico.
Si tratta di una riforma, quella introdotta dalla legge approvata dal Parlamento e ora sottoposta a
referendum, che arriva tardi di oltre trent’anni rispetto alle modifiche del sistema processuale
dettate dal nuovo codice di procedura penale e dalla introduzione nella Costituzione delle regole
del giusto processo.
Oggi abbiamo un modello di processo del tutto incompatibile con un ordinamento in cui magistrati
requirenti e giudicanti vengono da un medesimo percorso di formazione, un medesimo concorso,
una medesima impostazione culturale, fino ad arrivare a dipendere gli uni dagli altri per
assegnazioni, trasferimenti, promozioni e giudizi disciplinari in un unico organo di governo
autonomo quale è il CSM attuale: pretendere che da questa comunione di cultura e di percorso
professionale possa venire fuori un giudice terzo e un pubblico ministero che sia parte alla pari
della difesa, è illusorio.
La legge approvata dal Parlamento e ora sottoposta a referendum potrà essere completata e
magari migliorata in alcuni aspetti con le successive leggi d’attuazione.
Ma il punto fondamentale è nei principi che afferma: assicura l’indipendenza e l’autonomia della
magistratura da ogni potere e rafforza il ruolo del giudice ponendolo al di sopra delle parti e
liberandolo dal dogma della cultura unica della giurisdizione – che si traduce nella comune
identificazione con lo Stato e il suo potere punitivo.
La separazione dei magistrati della pubblica accusa dai giudici, la liberazione degli organi di
governo autonomo dall’occupazione correntizia dell’Anm e l’istituzione di un’alta corte
indipendente, chiamata a decidere sugli addebiti disciplinari renderanno più trasparente
l’amministrazione del sistema giudiziario e più responsabili i magistrati rispetto al proprio operato.
Con questa riforma non troveranno certamente soluzione tutti i problemi della giustizia penale in
Italia semplicemente perché la legge non tratta di questi. La sua bocciatura, del resto, non li
renderebbe né meno gravi, né più risolvibili.
L’uso abusivo della legislazione penale come “testimonianza di intransigente impegno” su ogni
tipo di emergenza sociale, reale o percepita; l’ipertrofia normativa e la moltiplicazione
incontrollata dei reati, delle aggravanti, delle misure cautelari e delle pene come forma privilegiata
di demagogia politica; l’enfasi securitaria e panpenalistica come specchio dell’inefficienza dello
Stato e surrogato della responsabilità di governo; la lentezza dei processi e il disfunzionamento
degli uffici: di tutti i mali del sistema penale non è certo il “NO” a rappresentare un rimedio.
Tra i partiti e gli schieramenti politici che si sono avvicendati negli anni alla guida del Paese, non ce
n’è alcuno che possa dirsi estraneo o innocente rispetto a una deriva che quanto più rendeva
ingiusta la giustizia, tanto più ne pretendeva la manomissione secondo i canoni del più classico e
purtroppo condiviso populismo penale, al cui repertorio appartiene anche la rivendicazione
dell’unicità della funzione giudiziaria e la confusione tra la figura dell’accusatore e quella del
giudice.
Con la separazione delle carriere si farebbe un passo avanti, certo non risolutore, ma necessario
nella direzione opposta, cioè della giustizia giusta.
–> questo articolo lo potete trovare sul quotidiano LaRagione del 27 dicembre 2025;
