1) Marco Perduca, tu sei stato rappresentante alle Nazioni Unite per il Partito Radicale dalla metà degli anni ‘90 al 2016, e conosci le dinamiche di questa organizzazione: cosa possono fare oggi le Nazioni Unite per promuovere la pace in questo contesto di minaccia nucleare?
La più longeva “missione di pace” delle Nazioni unite è UNFICYP; nei suoi 60 anni di presenza a Cipro non è riuscita a portare pace sull’isola all’indomani della sua “indipendenza” dal Regno unito.
A metà degli anni Settanta, sotto gli occhi dei caschi blu, si stava per verificare un’annessione della parte turca da parte dei greci con possibili conseguenti massacri. Un’annessione non solo alla parte sud, ma addirittura alla Grecia governata dai colonnelli! L’intervento militare turco, stigmatizzato dal Consiglio di Sicurezza, evitò l’aggressione e contribuì alla caduta delle giunte militari in Grecia e la sconfitta dei movimenti neo-fascisti greco-ciprioti. All’inizio del Terzo Millennio, dopo anni di negoziati al Palazzo di Vetro, fu raggiunto un delicato compromesso per federalizzare l’isola su base “comunitaria”, il referendum che avrebbe dovuto confermare la proposta negoziata da Kofi Annan vide la parte turca aderire alla riforma, mentre quella greca la rigettò. Il nord non era riconosciuto da nessuno, il sud in quanto democrazia con le carte in regola, di lì a poco sarebbe addirittura entrato nell’Unione europea malgrado non avesse sotto controllo un 40% del territorio dell’isola.
Può sembrare parlare d’altro, o “buttarla in caciara” come si dice a Roma, ma se non si ricorda la storia dell’Onu, intesa come “comunità internazionale”, e non si conoscono caratteristiche, competenze e dinamiche dell’organizzazione si continuerà col tirarla in ballo a “sproposito”. Questo naturalmente non vuol dire che non vada fatto, ma conoscela un po’ meglio ci può aiutare ad articolare proposte o critiche tanto puntuali quanto costruttive.
Uno dei ruoli dell’Onu è quello di favorire il dialogo tra pari pur sapendo che ce ne sono cinque che sono più “pari” degli altri: i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. La “disparità” è data dal loro potere di vetare decisioni su qualsiasi tema – indagini della Corte penale internazionale inclusa che, come (non) si sa, non è un organo delle Nazioni unite – bloccando anche iniziative che hanno ampio consenso in seno all’Assemblea generale. Le missioni di pace vengono deliberate dal Consiglio.
Con queste imprescindibili premesse, l’Onu può rappresentare il luogo del confronto e di una limitata presa di decisioni, che sempre più spesso sono prese di posizioni, sempre che ci sia qualche Stato Membro, o gruppo di stati, che si incarichi di suscitarle. Tra le cose proposte dal Partito Radicale Transnazionale all’Onu (lo chiamo così perché per una quindicina d’anni PRT è stato il nome con cui è stato affiliato al Consiglio economico e sociale, ECOSOC delle Nazioni unite) c’era la promozione di un cuacus di democrazie alle Nazioni unite. Un gruppo informale che si attivasse in occasione della predisposizione di risoluzioni e di elezioni delle presidenze delle varie commissioni o conferenze onusiane. La guerra in Iraq ha mandato in rovina il tutto. Non che fosse facile mettere d’accordo i paesi europei su chi, per esempio, qualificava come “democrazia”, ma almeno porsi il problema in termini pragmatici, (risoluzioni ed elezioni) avrebbe affiancato la discussione sui parametri da applicare per distribuire “patenti di democraticità” ad azioni che avrebbero potuto scongiurare il Sudan in Consiglio di Sicurezza o l’Iran presidente della Commissione diritti umani ecc ecc.
Quella campagna del PRT faceva parte di una proposta più ambiziosa, al limite del velleitario più che del visionario, della Organizzazione della e delle Democrazie.
Quando si parla di Onu occorre quindi sempre ricordarsi che, a parte la statura di chi la guida, è un’organizzazione in mano ai governi e quindi l’orientamento, l’atteggiamento e la propensione alla diplomazia di questi fa la differenza.
In un mondo ormai multipolare che non pratica il multilaterale, c’è il rischio che invocare l’intervento pacificatore dell’Onu equivalga alla vox clamantis in deserto, criticarne l’inutilità cronica un voler scansare il problema che gli si vorrebbe far affrontare. Se queste critiche potevano essere ancora ragionevoli o possibili fino a 20 anni fa oggi le cose sfuggono sempre più spesso al buon senso e perfine al senso comune…
La ricerca della pace non può far l’economia della storia, di questo “nuovo” contesto né di questioni più politiche, come la necessità di non scambiare la promozione della pacificazione con la ricerca della stabilità. Non possiamo continuare a sacrificare libertà e diritti umani sull’altare della “pace” perché, e la storia ce lo dovrebbe ricordare se non addirittura insegnare, quelle “paci“ durano poco e fanno solo gli interessi dei regimi che le siglano.
2) Nel 1964 il Partito Radicale aderì al Comitato per il Disarmo Atomico e Convenzionale dell’Area Europea, lo fece proprio durante il periodo della guerra fredda, ci sono analogie tra quel passato e il presente in cui stiamo vivendo? È utopico pensare oggi ad una campagna per il Disarmo Atomico oggi?
Anche se quasi tutti gli Stati che si riunivano nel “Patto di Varsavia” oggi sono membri della NATO, il confronto “Occidente” e Russia resta in piedi – e non per responsabilità europee o statunitensi. Il ritorno della minaccia nucleare da parte di chi ha aggredito uno Stato vicino non depone a favore del dialogo e della distensione; se non conoscessimo Putin si potrebbe ipotizzare che siamo di fronte a qualcuno che fa la voce grossa per essere preso in considerazione, ma siccome nei suoi ormai 25 anni al potere Putin ha progressivamente corroso le caratteristiche democratiche del suo Paese annientando, anche fisicamente, il dissenso, circondandosi di oligarchi che lo e si arricchiscono in modo inverosimile, occupando militarmente Ucraina, Georgia e Moldavia, credo che le minacce siano da prendere in seria considerazione e che gli vada risposto con “una voce sola” ricordando a tutte le parti coinvolte gli obblighi derivanti dai trattati di non proliferazione, ma anche ricordando cosa prevede l’articolo 5 dell’atto costitutivo della NATO: uno per tutti, tutti per uno. Dalle azioni nonviolente radicali degli anni ‘60 sono state fatte scelte di stampo diverso ma sempre nel rispetto di quanto prevede la Carta delle Nazioni unite che al capitolo 7 prevede, come extrema ratio, anche l’uso della forza sancito dal Consiglio di Sicurezza. Un esempio è il sostegno dell’intervento dell’Onu nel 1991 in Iraq a seguito dell’invasione dell’Iraq e la sostanziale non ostilità alla risposta militare della NATO ai crimini commessi da Milosevic nei Balcani. Ma tanto nel primo quanto nel secondo caso la sofferta adesione all’uso della forza era arrivata dopo anni di iniziative politiche a tutto tondo.
Qualche mese fa, il Comitato dei Nobel si è posto, forse tardivamente, il problema, e ha pensato di conferire un premio per la pace a un’associazione nata a seguito del bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki. Sono anni che i governi si preoccupano che non far sviluppare armi nucleari all’Iran e cercano di scongiurare che paesi come la Corea del Nord o il Pakistan le usino, se in tutto questo periodo non è stata lanciata alcuna campagna per il disarmo atomico degna di nota, oggi mi pare che la praticabilità di una mobilitazione transnazionale su questo tema sia pressoché nulla. Questo non vuol dire che non sarebbe necessaria, non foss’altro per aprire una approfondita e pragmatic discussione: ma le campagne globali pianificate a tavolino senza un minimo di appiglio di riforma possibile rientrano nel dominio del “campaining” non in quello della politica, e l’elezione di Trump muta nuovamente gli scenari, le dinamiche e le alleanze.
3) La Russia di Putin è oggi una minaccia per tutto il mondo, ma ha senso pensare ad un ruolo dell’Unione Europea come mediatore del conflitto visti i principi fondanti della stessa Unione?
A dire la verità non mi pare che sia particolarmente diffusa la convinzione che la minaccia per la pace e la sicurezza internazionale oggi si chiami Vladimir Putin… non solo perché molti partiti politici europei, e anche qualche governo, guardano insistentemente a Mosca, magari per puro tornaconto economico, ma perché Putin oltre alla forza militare nei confronti di altre ex-repubbliche sovietiche, continua ad applicare il manuale del KGB della guerra psicologica con particolare efficacia, disponendo di risorse ingenti gli è facile comprare il consenso e gli “influencer” un po’ dappertutto.
L’Unione europea non ha (mai o quasi) manifestato particolare attenzione a quel che succede nel mondo dal punto di vista politico, si è “limitata” a stare con gli USA e firmare accordi con paesi terzi pensando più al proprio tornaconto economico e praticando una visione piuttosto superficiale e datata degli “aiuti allo sviluppo”. Da una ventina d’anni ormai è di fatto diventata irrilevante in Africa come in America Latina. Le cause sono naturalmente varie e, in estrema sintesi, le si potrebbero individuare nella mancata federalizzazione dell’Unione che dagli anni Settanta è rimasta un ibrido dove sono i Governi a comandare – e si sa che i governi decidono pro domo loro e non per gli interessi dell’Unione o il rispetto della legalità internazionale e i diritti umani.
Ma se anche l’Ue fosse quello che non è ma dovrebbe essere, non credo che il suo ruolo sarebbe quello di mediazione. Per mediare occorrerebbe in effetti l’Onu, non un’organizzazione politica come l’Unione europea. Se il conflitto su cui mediare fosse quello Russo-ucraino, l’Ue in quanto geograficamente confinante non sarebbe comunque l’attore più “super partes”, l’Onu non può entrare in azione perché una parte in conflitto ha il potere di vito.
4) La Cina che ruolo può giocare oggi? La dobbiamo vedere come un alleato per lenire il conflitto in Ucraina o come un nemico futuro in caso di accordi?
L’elezione di Trump potrebbe raffreddare gli animi a stelle e strisce nei confronti della Russia mentre li potrebbe riscaldare nei confronti della Cina. Il rapporto personale, e di personalità, tra Trump e Putin potrebbe far suscitare mutamenti di atteggiamenti a Mosca e Washington e quindi anche a Bruxelles e Kiev. L’imprevedibilità caratteriale del presidente eletto potrebbe avere anche qualche risvolto positivo, come lo fu il viaggio in Corea del nord, ma per ora non ha che il “potere” della dichiarazioni pubbliche, importante ma non effettivo. La Cina mi pare invece vittima di se stessa, da una parte il dirigismo economico si è scontrato con la “realtà di mercato” delle bolle speculative immobiliari, dall’altra la narcotizzazione degli aiuti di Stato destinati a una iper-produzione di prodotti per uso interno ed esportazione, come ad esempio i pannelli solari e le auto elettriche, per essere competitiva a livello globale. Questa concorrenza sleale può esser messa in crisi strutturale se chi ti compra i prodotti reagisce con pratiche uguali ma contrarie come l’imposizione di dazi. L’Ue ha già deliberato a riguardo, se Trump sarà conseguente a quanto detto in campagna elettorale imporrà almeno un 10% ai prodotti importati dalla Cina. Se le produzioni cinesi diminuiscono, diminuisce anche la domanda di energia, se la domanda di energia diminuisce ne risente anche l’economia di chi, come la Russia gliela vende. Se alla Russia, contro cui da un paio d’anni sono state imposte sanzioni, anche se imperfette e non sempre rispettate, viene a mancare il primo compratore di gas e petrolio, o se un simile calo di esportazioni dovesse colpire anche l’Iran – o se Russia e Iran, oggi alleate, dovessero trovarsi di fronte alla necessità di farsi concorrenza con prezzi al ribasso per vendere alla Cina gas e petrolio – allora le relazioni di forza potrebbero modificarsi in poco tempo.
Altra caratteristica, almeno per ora tipica, della Cina è quella di non infilarsi in conflitti fuori dai propri confini. Un conto è che Xi Jinping e Vladimir Putin dichiarino un’amicizia senza limiti, un altro è fare pressioni perché il proprio amico ponga fine a un conflitto che ha iniziato senza alcun motivo… Alla Cina interessa l’Oriente non il confronto con l’Occidente. Ha dispute territoriali con India, Filippine e Vietnam, problemi con Myanmar e Laos, li ha “risolti” con la prepotenza a Hong Kong e appena le torna utile, in chiave interna e internazionale, si avvicina pericolosamente a Taiwan. Mi pare piuttosto difficile che la Cina possa essere ritenuta portatrice di pace.
Poi andrebbe fatta una rassegna delle presenze cinesi e russe, e loro interessi, in Africa per capire come la Cina non sia “riuscita” a mediare conflitti in paesi come il Sudan, dove è molto presente, o quali sia l’amicizia infinita sino-russa in Africa occidentale dove ci sono stati tre colpi di stato in due anni e dove l’economia è filo-cinese mentre la politica filo-russa. Oppure andrebbe meglio studiato il caso del Gabon, anch’esso vittima di un colpo di stato militare, che mette la propria bandiera al servizio della flotta “fantasma” di petroliere russe per aggirare le sanzioni occidentali…
La Cina è questa e ha già scelto da che parte stare.
5) Nel novembre del 2023 Shuang, vice-rappresentante permanente della Cina alle Nazioni Unite, ha affermato che: “le religioni possono svolgere un ruolo positivo nella promozione della pace, anche per la risoluzione del conflitto Ucraina-Russia”. Cosa c’è di reale in questa affermazione? È questa una strada percorribile?
Quale credibilità potranno mai avere le parole di un diplomatico che lavora per uno Stato che non consente la libera espressione o aggregazione pubblica e che anzi perseguita buddisti, musulmani e cristiani a casa propria? Io direi zero, ma siccome sono state dette all’Onu che, come si diceva, è un luogo di incontro, non potevano non essere prese in considerazione. Non so come gli sia stato risposto, ma un eventuale silenzio sarebbe stata la reazione più appropriata. Anche perché se c’è una cosa da NON fare è infilare la religione nella politica e, sicuramente, affidarsi a religioni che sono parte integrante del potere politico, come la chiesa ortodossa russa, o sono state addomesticate con la forza come tutte le denominazioni religiose che operano in Cina.
La pace non è una religione, cioè non la si può invocare come un un credo senza tenere di conto della realtà dei fatti. Gli appelli o le marce per la pace che non hanno proposte praticabili, sono veri e propri “atti di fede” (oltre che di terapie di gruppo) che servono a posizionarsi ma non vanno nella direzione auspicata dalle preghiere o appelli. Lasciando da parte la chiesa ortodossa russa, che se possibile aizza Putin alla guerra, le presunte o reali iniziative intraprese dal capo della Conferenza episcopale italiana per la pace non sono andate da nessuna parte, come, parrebbe, non stanno andando a buon fine i contatti per il rientro in patria di migliaia di bambini ucraini rapiti dalle truppe russe nei primi giorni dell’aggressione all’Ucraina.
La Cina è nuova all’ecumenismo spirituale, ma questa novità non può non farci dimenticare come sono trattati tibetani, uiguri, falungong e cristiani di ogni denominazione.